Decostruttivismo e Architettura

Considerazioni sull’Architettura contemporanea

Delfo Del Bino, Giorgia Boitano, Federico Baldi

Guida alla lettura

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Prefazione

Questo libro – scusate se ci ostiniamo a chiamarlo così - si propone alcuni obiettivi: scorrere rapidamente la storia dei precedenti e dell’attualità dell’Architettura, illustrare le idee di alcuni protagonisti e le loro opere, riflettendo su che cosa siano e che cosa rappresentino, oggi, in Italia e nel mondo.

Con quali mezzi abbiamo cercato di raggiungere un tale obiettivo? Questo è il punto. Non con il classico libro, fatto di pagine scritte su carta, ma con un mezzo visivo completamente diverso, un ebook multimediale. Quali i vantaggi rispetto a un libro tradizionale? Molti, a cominciare dall’ingombro. Un libro che raccolga tante immagini di grandi dimensioni quanto lo sono quelle che questo nostro marchingegno consente di raggiungere, richiederebbe grandi dimensioni e un peso di alcuni chilogrammi contro le dimensioni standard e i pochi grammi di un tablet. La luminosità delle immagini proiettate sullo schermo, inoltre, è impossibile da riprodurre sulla carta.

Il tema svolto in questo primo esemplare, sicuramente carente di qualcosa perché privo di precedenti riscontri, si propone di affrontare un particolare movimento dell’Architettura contemporanea, quello dei decostruttivisti, che, sotto la spinta di una procedura decompositiva e ricompositiva ideata dal filosofo algerino Jacques Derrida, trovano il coraggio di svolgere un’attività progettuale in grado di abbandonare i vecchi modelli trascinati fino ai nostri giorni dall’accademia, e di proporne altri a dir poco originali. L’analisi e la critica di queste posizioni ci ha fornito lo spunto per proporre alcune riflessioni sull’Architettura.

Di fronte a una tale posizione che rigetta ogni compromesso con il passato, vi è una nobile voce antica eppure modernissima che si leva e dice:“Attenzione, l’Architettura non può trascurare tre caratteri che le sono propri e devono essere riscontrati in una qualsiasi immaginaria carta di identità. Utilitas, Firmitas, Venustas!”.   

Delfo Del Bino
Luglio 2015

Introduzione

Architettura e vita: una questione morale

Ovunque si parla della necessità di riformare. Non si dice che cosa né come, ma se ne parla a destra e a sinistra. Una cosa appare certa: il futuro sarà un futuro di riforme. Alcuni lo prevedono e ostentano un nome, quello di “Democrazia matura” contrapposto alla visione di un mondo imposta da un potere politico e intellettuale intollerante. Riaffiora un tema antico, in cui si contrappongono la libertà d’espressione e l’oppressione del dogma che la nega.

È la regola che fa paura: riduce la libertà e prelude a un ordine gerarchico. Una paura che confonde la libertà con la licenza e la regola con il dogma. «Eliminare la regola!». Si leva un grido di dolore di quella cultura che si è imposta d’essere in prima linea in difesa della libertà. «La morale è salva!».

Ma tutto ciò è sufficiente? Esaminiamo l’architettura. Nessun’altra attività intellettuale è cosi vicina e dipendente dalla politica e dal potere. Nondimeno, vi sono stati periodi in cui la spinta al cambiamento ha assunto il carattere di una rivolta contro l’immobilità cara al potere. Sono questi i momenti di crisi, ai quali non è estranea la lotta, in cui nulla va più come prima e la voglia di mutamento si trasforma in necessità.

Cambiamento evoca cambiamento. Il vecchio e il nuovo convivono. O meglio, sono costretti a convivere, sebbene il nuovo incomba con tutta la sua carica di attualità. Il vecchio resiste, innalza barricate culturali e chiama a testimone la Storia. Gli avversari ritengono abbia fatto il suo tempo e sono convinti che il nuovo, con i suoi contenuti rivoluzionari, sia pronto a scalzarlo dalla sua posizione di dominio. Nel contrasto che diviene lotta tra generazioni, il vecchio appare destinato a soccombere, nonostante il suo riemergere sotto altre forme, quale attestazione di una saggezza che merita di venire ricordata.

È impossibile che l’Architettura non risenta di questo periodo inquieto. A essa ci siamo sempre rivolti per soddisfare molte delle nostre aspirazioni, tanto di natura pratica, quanto di natura simbolica. Ed è a motivo della sua attitudine alla dimensione simbolica che è divenuta parte della vita degli uomini, sia nelle massime espressioni intellettuali e spirituali di un popolo, sia riferite a ogni singolo individuo. Espressione, quindi, di molti o di uno solo.

1. Decostruttivismo

Un processo liberatorio

L’idea di decostruzione è stata esemplificata dal filosofo algerino Jacques Derrida. La sua diretta applicazione consiste nella lettura di testi filosofici o letterari tradizionali, sui quali viene attivato un processo di “smontaggio” e di “rimontaggio”, seguendo per ciascuna operazione un cammino in senso opposto all’altro. Ciò consentirebbe di rileggere in senso inverso le gerarchie attribuibili ai vari concetti e ai loro significati.

Si trattava di un’operazione che non si esauriva in sé, ma che, su uno stesso testo, Derrida avrebbe ripetuto fino al momento in cui avesse ravvisata la “traccia” originale, l’impercettibile segno dal quale, dopo un percorso tortuoso ormai perduto nei secoli, si era pervenuti ai significati attuali. Un processo che avrebbe consentito di ripercorrere a ritroso un cammino millenario sorretto da conoscenze limitate e pronto ad arricchirsi, di esperienza in esperienza, un secolo dietro l’altro. Tutto il contrario di quanto poteva permettersi il decostruttore “ricostruttore”, giacché egli attuava anche la sua “ricostruzione” disponendo dell’esperienza che l’attualità dei tempi, necessariamente, gli trasmetteva.

Rovistando tra le carte e nei campi arati dai filosofi più recenti come Husserl, Kierkegaard e Nietzsche o contemporanei come Heidegger, Derrida era riuscito attraverso un ardito processo di decostruzione a risalire al “segno” originario a partire dal quale gli uomini avevano apportato il loro contributo alla cultura, perché si evolvesse verso l’attualità. Quella stessa attualità che trovava la sua naturale giustificazione quale frutto concreto di una decostruzione inavvertita, che si era attuata spontaneamente durante i secoli in base allo svolgersi di processi in gran parte necessari.


La ricerca della “traccia” iniziale

Derrida non pensava che la sua decostruzione sarebbe divenuta un campo di battaglia dove alcuni architetti, giovani e meno giovani, avrebbero dato inizio alla corrente decostruttivista. Accettò di buon grado l’invasione di campo che, grazie alla genialità di alcuni, prometteva un’eccitante avventura. Il filosofo fece qualcosa di più: la legittimò con una sua diretta esperienza a Parigi, nel Parco della Villette. Dopo molti tentativi di svincolarsi dai lacci tradizionalmente tesi dalle accademie e dal culto dei canoni di una bellezza che non sopportava le deviazioni, finalmente tentò un modo per liberarsi delle obbligazioni formali chiamate canoni.

Onde eliminare ogni equivoco, dobbiamo ricordare che nell’operazione chiamata decostruzione non si cerca di distruggere le strutture, ma piuttosto di liberarle. Come avverte lo stesso Derrida, infatti, se tale termine avesse voluto richiamare un processo di annullamento strutturale, si sarebbe rivelato necessario l’uso di un termine più esplicito, come per esempio “destrutturazione”.

Nelle ipotesi di Derrida intorno alla decostruzione vengono esplicitati tre punti cardine: il primo è la rimozione dell’individuale, il secondo è l’affermazione secondo cui la metafisica è rimozione della materia, il terzo indica nel segno - la traccia ricavata con le operazioni descritte - la centralità della metafisica.

Concludendo, è priva di fondamento l’opinione secondo cui la decostruzione terminerebbe negativamente, cioè senza prospettive ricostruttive, ovvero priva di un interesse positivo.

Chi era Derrida?

Facciamo un passo indietro e cerchiamo di descriverlo attraverso il suo pensiero. È il filosofo che porta a compimento le analisi impostate dai suoi predecessori, come Husserl, Heidegger e Kierkegaard, le utilizza e le fa utilizzare, con il processo da lui stesso chiamato decostruzione.  

L’architettura alla quale adegua il processo di decostruzione è prima di tutto una sintesi che si raggiunge in uno speciale momento di felicità progettuale. In essa, la Storia si concentra e si sterilizza. Il processo di decostruzione, il procedere a ritroso per individuare il segno originario, la traccia trascendente e assoluta, è esercizio che non può non tener conto della Storia. Il gesto creativo dal quale l’Architettura deriva la sua forma definitiva, le sue virtù statiche , la sua durevolezza nel tempo, la sua utilità e la sua bellezza è un gesto che sta nella Storia, la esalta e la dissolve con la sua sintesi.

La decostruzione in un esempio

Ricordate la parigina Torre Eiffel? Il suo progettista la volle come simbolo della città in occasione dell’Exposition Universelle del 1889. Ne fece un oggetto che poteva essere osservato da qualunque parte della città si trovasse l’osservatore e, come se non bastasse, volle che dalla stessa torre fosse possibile osservare tutta Parigi. Il progettista utilizzò una tecnologia nuova, quella del ferro: un materiale che, insieme al vetro, aveva già dato ottimi risultati nel londinese Palazzo di Cristallo.

Se la sottopongo al processo di decostruzione derridiano, ho tre soluzioni in alternativa:

- la decostruzione formale, che recupera gli accenni piramidali da cui essa discende;
- la decostruzione funzionale, da cui derivano i suoi punti di osservazione rivolti verso la città;
- la decostruzione strutturale, dalla quale si possono separare le singole parti strutturali che le consentono di restare ben ferma sulla piattaforma dove è poggiata.

Ne segue che la decostruzione è un esame strutturale e funzionale di un oggetto che, se assoggettato alla successiva ipotesi della ricostruzione, sublima i termini e ne suggerisce la conferma o la correzione. Probabilmente un Derrida ancora vivo sosterrebbe che la Torre Eiffel altro non è che il frutto di un processo inconscio di decostruzione. In una città chiusa che, nella sua permanente attualità, d’improvviso si apre all’orizzonte. Ed ecco pronto l’oggetto capace di soddisfare le sue vanità: un oggetto universalmente osservato, dal quale è possibile osservare.


I Decostruttivisti in mostra

Era il 1932 quando Philip Johnson, insieme a Henry-Russell Hitchcock e ad Alfred Bar, con una mostra al Museo di Arte Moderna di New York intitolata Modern Architecture, esaltava le celebrità europee degli anni venti, schierando tra i primi Mies, Le Corbusier, Gropius.

Cinquantasei anni più tardi, Johnson, vara il fortunato vascello della corrente internazionale dell’architettura decostruttivista. Nel 1988, infatti, sempre al Museum of Modern Art, insieme a Mark Wigley organizza una mostra che segna battesimo del decostruttivismo. In quella serata estiva erano presenti “i magnifici sette” architetti, quasi tutti giovani: Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Coop Himmelblau, Bernard Tschumi e Frank Gehry.

Il più famoso e forse il più sincero e coerente, Frank Gehry, si è sempre dichiarato estraneo al decostruttivismo di Derrida che, se curato nel suo sviluppo, avrebbe potuto costruire la fortuna dei sette.

Tra i critici italiani, chi non si fece attendere per gridare al miracolo fu Bruno Zevi, il quale esplose in una frase rimasta famosa: «Dopo cinquemila anni, la rivoluzione».

Il coro ode, ascolta, dapprima non capisce, poi esplode: «L’Architettura cambia le vesti e non solo quelle, ma il suo essere Architettura».

Si è trattato in realtà di poco più di una curiosa intersezione di esperienze diverse, tutte emotivamente legate a un comune referente linguistico, l’idea di dislocazione, innovazione, deviazione, distorsione, la tensione verso la libertà, l’inesplorato potenziale propulsivo della modernità.

Da architettura moderna a decostruttivista

Con la storica Modern Architecture del 1932, si radunavano in una stessa mostra gli eroi degli anni venti quali Gropius, Mies van der Rohe, Le Corbusier, quegli architetti che dai primi decenni del Novecento hanno adottato approcci progettuali del tutto innovatori, con risultati formali che hanno raggiunto espressioni estetiche decisamente rivoluzionarie.

Le motivazioni alla base dei loro progetti erano chiare. Per Gropius e Mies, la razionalità costruttiva e l’affinamento di ogni dettaglio in relazione agli scopi da raggiungere, per Le Corbusier i bisogni sorgevano sia dal sociale – unità di abitazione a Marsiglia - sia dal rapporto eficio-ambiente – Chandigahr - sia da una fantasia ardita e controllata – Ronchamp, Notre-Dame du Haut.

Con il 1988, invece, questa chiarezza vene meno.


Una scossa al dibattito architettonico

Qualche mese prima della mostra al Museo di Arte Moderna di New York, la Tate Gallery e l’Academy Group avevano organizzato il primo International Symposium on Deconstruction, con una parte dedicata all’architettura e una che ne sviluppava le questioni più strettamente filosofiche, oltre a quelle connesse alle arti visive. Con i contributi del convegno nacque un numero speciale di Architectural Design intitolato Deconstruction in Architecture e curato da Charles Jencks, che raccoglieva progetti di Tschumi, Hadid, Coop Himmelblau, Zenghelis, Gehry e Morphosis, oltre a quelli di Ambasz e di SITE.

L’attenzione del dibattito architettonico si è così rapidamente spostata sul decostruttivismo. Al di là del non unanime richiamo alla decostruzione, come è stata codificata da Derrida e al di là del discusso legame con la modernità (la nozione di Decostruzione di Derrida trascende categorie come il Moderno, è astorica, potrebbe essere moderna, ma anche non esserlo), va detto che l’architettura del decostruttivismo costituisce il fatto nuovo in un momento in cui si andava riproponendo un dibattito ormai stanco e avaro di prospettive. La scienza e la tecnologia le hanno offerto la loro collaborazione maggiore.

Ingegno e innovazione

L’azione di rinnovamento dell’architettura operata da Le Corbusier, Wright, Gropius, Mies van der Rohe e altri architetti del movimento moderno ha avuto un largo riconoscimento per l’impronta culturale che testimonia la loro straordinaria attività di innovatori. Ciascuno con opere e teorie che hanno aperto all’architettura d’inizio secolo il varco per la sua affermazione.

Sulla scia dell’attività svolta da tali ingegni, ma con maggiori difficoltà dovute alle loro opere recanti il volto dell’innovazione, nel 1988 si presentano, con un coup de théâtre, i nuovi nati dal grembo di Philip Johnson. Essi apertamente dichiarano di distruggere le basi e le stesse motivazioni dell’Architettura così come è stata pensata e prodotta durante cinquemila anni. Bruno Zevi si strappa i capelli entusiasta lasciando intendere che «è in atto una rivoluzione che non salva nessuno».

La voglia di strafare si è tradotta in edifici che starebbero per cadere se non vi fossero – bene in vista - provvidenziali puntelli. Qualcuno pensa e si preoccupa: «Ci vuole una bella faccia tosta a presentare scherzi carnevaleschi spacciandoli per architettura». E altri: «Dove credono di essere, a Rio?»

Fortunatamente, non tutto il prodotto decostruttivista si presenta così e si sono costruiti oggetti meritevoli di essere ammirati. Un esempio è il museo Guggenheim di Bilbao, città che grazie all’architettura di Gehry sulla riva sinistra del fiume Nervion, ha visto una crescita del numero dei visitatori.

A prescindere dal valore di ciascuno dei “magnifici sette”, da cosa deriva il successo del gruppo? Forse da una presentazione che utilizza criteri culturali di avanguardia basati sul carisma di una filosofia e di un filosofo qual è stato Jacques Derrida, apprezzato da un mondo ansioso di rinnovarsi?

Una reazione critica

Si tratta di un impegno coraggioso o di un’astuta operazione commerciale? Di onestà intellettuale a prova di critica o di furbesca reazione a una quiete scandalosa, dominata da tre o quattro figure, oppure, peggio, ove si udivano ancora lamenti, pronti ad alzare il tono contro il nemico da battere, l’Accademia? Quell’Accademia che era stata una pattuglia fedele, rimasta sola a difendere la nobiltà dell’Architettura e a pretenderne il rispetto.

Fatto è che, sebbene vi siano molti dubbi ancora da chiarire, i magici filtri di Derrida hanno aperto più di un varco alla fantasia, trasformandola nel nume tutelare della “nuova Architettura”.
I processi di decostruzione non sono un imbroglio, ma un veicolo di cui ci si può servire nell’ambito di una cultura che non disdegna l’improvvisazione. Buono e cattivo possono coesistere, finché non si è capito qual è il cattivo. Non è decostruendo che si possono scoprire i secolari segreti delle forme architettoniche, ma vanno considerati diversi aspetti. Inoltre, c’è qualcosa di più recente, la tecnologia che rende possibile la realizzazione di qualsiasi forma, anche la più bislacca e irragionevole.

L’architettura come arte del costruire, la causa efficiente del suo realizzarsi, la sua funzione simbolica o pratica che sia, aiutano a comprendere il mistero della sua bellezza. E infine, la corretta interpretazione del ruolo svolto dall’architetto che, come afferma Vitruvio, dà luogo a un nuovo organismo e ne inventa la forma. L’architetto come un sacerdote che si applica perché la superba Dèa della Bellezza possa convivere con l’umile e chiara praticità della Funzione di cui è partecipe.

Decostruttivismo a parte, a suggerire la forma concorrono una componente pratica e lo spirito di una controllata esaltazione della componente estetica. Nell’insieme fanno perfino dimenticare la materia con cui la forma viene realizzata: perché è materia anche se talvolta non sembra esserlo. È ovvio: la materia si perde nel miracolo della forma e diviene ciò che intende essere. È il linguaggio architettonico che si rinnova ed esprime i giusti significati nella fase della ricostruzione che, come afferma Derrida, segue la decostruzione e ne raccoglie i significati. È lì che acquista la sua qualità – vale ricordarlo – onde apertamente denuncia la propria funzionale presenza.

L’architettura e l’attualità

Con Philip Johnson, il “prestito” del filosofo Derrida all’architettura ha dato i suoi frutti e ha fornito al nuovo corso le motivazioni ideali di chi è pronto ad abbattere gli Idola della conservazione. L’architettura, all’epoca dei Greci e dei Romani, nel Rinascimento e nei secoli successivi, si è sviluppata con molta prudenza, prostrandosi al potere verso cui ha coltivato un rapporto di sudditanza. Ha conosciuto il sollevamento della borghesia, l’affermazione del proletariato, ha proseguito verso un nuovo ordine sociale, una pacifica rivoluzione che non sarebbe lecito ignorare: la rivoluzione democratica. Ha affiancato un ceto che non soltanto lavora e produce idee, oggetti e servizi, ma ha dato luogo a un nuovo circuito economico basato sulla produzione spinta dai consumi.

È a questo mondo cui il decostruttivismo si è rivolto con i suoi autori e i loro progetti. Occorreva un’esplosione di follia iconoclastica che rovesciasse un quieto perbenismo, tutto regole e dogmi, nel quale l’architettura sonnecchiava tranquilla. Occorreva qualcuno e qualcosa che scuotesse il mondo del quieto vivere architettonico ridotto ad avvitarsi su se stesso. Ed ecco i segnali della rivolta: via le leggi, le regole, le norme e i dogmi. Le prime avvisaglie sono state seguite da molti tentativi, di cui alcuni ben riusciti.

La critica ha assolto tutti dal reato di sedizione e rivolta, incitando a proseguire l’avventura del rinnovamento. Tra i nuovi materiali, il ferro e il vetro. Mancava solo un filosofo che fornisse una legittimazione culturale alla scandalosa rottura frontale condotta da un gruppo di scalmanati schierati contro la Storia ufficiale. Critici come Zevi avevano urlato di gioia: «Ecco la rivoluzione!». La decostruzione proposta da Jacques Derrida si è mossa anche nell’Architettura e ha funzionato. Vi hanno contribuito i Guggenheim diffondendo la buona novella.

C’entri o non c’entri Jacques Derrida, poco importa. Quel che conta è l’aver preso atto che il mondo è cambiato e che è stato proprio l’uomo, il cittadino, a cambiarlo. I decostruttivisti sono stati tra i primi a capirlo. Il nuovo mondo chiede solo quel che gli spetta: una sua architettura che lo rappresenti per quello che è.

Deve essere chiaro, Derrida e il decostruttivismo non hanno scalzato Vitruvio dal suo trono a tre gambe - Utilitas, Firmitas, Venustas - e questi, da buon vecchio paziente, suggerisce loro: «Forza ragazzi, ma non esagerate», mentre Le Corbusier se ne sta calmo in un angolo della sua Notre-Dame du Haut.

2. Architettura

Decostruttivismo: una paziente ricerca

La fiducia di Jacques Derrida nel processo decostruzionista è stata pari a quella delle sue attese. Se dapprima tale processo aveva come oggetto il linguaggio scritto e le sue strutture e, nondimeno, si presentava quale operazione complessa, egli non si arrese di fronte a una ben strana proposta: la sostituzione del linguaggio scritto con quello dell’Architettura.

Evidentemente, le strutture linguistiche – limitate a quelle del linguaggio scritto – rappresentano l’impegno quotidiano per un filosofo. Le strutture del linguaggio architettonico, non solo quelle di origine statica, ma anche quelle che danno visibilità e senso all’organismo e alla forma, rappresentavano vere e proprie novità. Novità nei due sensi: nel senso che vede il filosofo alle prese con i grafici della forma fisica di un’architettura e in quello di un architetto alle prese con lo sconosciuto marchingegno della rimozione e della decostruzione.

Ammessa la possibilità di superare almeno uno degli ostacoli appena accennati, sorge il sospetto che tutto finisca lì e che il procedere su una qualsiasi strada non abbastanza conosciuta possa rappresentare una difficoltà insormontabile. A meno che non si agisca sotto l’impulso di una fantasia carica di originalità, in grado di integrare o di sostituire il processo di decostruzione, così come Derrida lo ha pensato e sviluppato durante gli anni della sua indagine svolta al di là e al di qua della Manica.

Una volta liberato il campo dalle sue ingombranti strutture, quel che restava non era l’effetto delle successioni processuali, ma una nuova struttura direttamente immaginata dall’architetto. Una struttura, quindi, frutto della sua fantasia e non delle sollecitazioni generate dal processo.

Dinanzi all’architetto si sono poste solo pagine vuote. Ciò significa che a ogni decostruzione in atto, vi è il suo spirito creativo, la forza della sua immaginazione, la sua creatività. Non modelli da interpretare, ma uno spazio affrancato da qualsiasi modello, una libertà pressoché totale, per un rinnovamento dell’architettura e delle sue forme.

Un'avventura intellettuale

Se c’è una chimica che spiega le straordinarie qualità di una proteina, da qualche parte vi deve essere una teoria che esalta le facoltà ricognitive della memoria. La memoria ci consente di individuare subito ciò che di familiare e di rassicurante vi è in una scena o in un’Architettura. Il noto si addice a uno stare sereno, ma la novità, ciò che ci è sconosciuto, se siamo fortunati può sollevare il sipario verso una seducente avventura intellettuale.

Nel decostruttivismo il discorso si fa ancora più incerto. Vi è un tentativo iniziale di rimozione delle resistenze che ostacolano il cammino verso le sorgenti del segno architettonico, là dove, una struttura dopo l’altra, l’Architettura si costituisce. Prosegue poi con l’analisi delle singole strutture con la stessa acribia con cui si interviene sul tavolo anatomico. Rimossi i tabù che difendono la Tradizione – nel nostro caso la Tradizione dell’intero Occidente - si apre uno sconfinato luogo di libertà.

Le immagini affollano la mente. L’analisi non è delle più innocenti se, abbandonata la strada percorsa da secoli, ci si arrende poco dopo per cedere nuovamente il passo a compiacimenti estetici, che - quando non assumono il carattere di guerra santa contro l’angolo retto, come per Peter Eisenman - hanno il sapore acidulo di un rigurgito provocato dal modo alquanto vecchio di progettare secondo la moda e il gusto del momento. Qualcosa di simile al rifiuto di una strada razionale per abbracciare tutto ciò che la respinge, quale unica risorsa capace di intuire nuovi itinerari. La materia viene distrutta e trattata come superficie di supporto a un colore o a un riflesso.

Non riuscendo a rimuovere le forme coerenti alla vita quotidiana, si ritiene di qualche interesse visivo il deformarle, indulgendo ai desideri di un nuovo idolo che poco ha da spartire col mondo della concretezza e molto con quello parallelo dell’evanescente inconsistenza dei sogni artificiali. Una specie di piccolo mostriciattolo alla cui formazione, in un non sanato litigio, hanno contribuito i postumi di una cattiva digestione, espressi tra paurose deformità e volgare arroganza. Le immagini si perdono, una per una: la voglia era di chiudere Vitruvio nella teca delle antiche curiosità. Non ce l’hanno fatta.

Il trinomio di Vitruvio

Non può esistere una proteina senza azoto, perché le molecole di azoto sono i mattoni con cui viene costruito l’edificio proteico. Allo stesso modo, per Vitruvio, l’architettura per essere tale, deve possedere tre qualità, che altro non sono se non i pilastri virtuali che la sostengono: Utilitas, Firmitas, Venustas. Da qui, semplificando, si ricava l’equazione vitruviana:

Va tenuto conto che mentre la stabilità e l’utilità – ovvero la funzione che l’edificio dovrà svolgere - costituiscono i dati dell’equazione, la bellezza ne è il risultato estetico e, allo stesso tempo, la variabile indipendente. Essa esige il contributo della forma. Ne deriva quindi che l’oggetto realizzato può ben funzionare ed essere stabile, pur essendo brutto, anche se sarà difficile poterlo chiamare architettura.

Se poi si ritiene, come a ragione riteneva Vitruvio, che l’architettura per essere tale debba essere “bella” , allora la bellezza perde la sua qualità di variabile indipendente e acquista un valore che le verrà assegnato dalla cultura architettonica in atto nel periodo del giudizio.

Se viene a mancare uno solo dei tre requisiti dell’equazione, è ancora possibile parlare di Architettura? Per quanto importante, la Bellezza da sola non basta. Essa deve essere accompagnata dalle altre due qualità pratiche: deve servire a qualcosa, deve essere in grado di sopportare le spinte della statica e le aggressioni del tempo.


Un’architettura non vitruviana

Stabile, utile, bello, dunque, sono i tre requisiti su cui Vitruvio fondava la sua nozione di Architettura. I primi due coincidenti con due qualità di ordine pratico e, il terzo, una qualità appartenente alla categoria dei valori, quindi in gran parte affidato alla soggettività dei giudizi. Nondimeno, tutti e tre dovevano allo stesso modo considerarsi elementi costitutivi. Non mattoni o molecole, ma concetti tra loro unitariamente correlati e non separabili se non per comodità di lettura. Per Vitruvio e per gli architetti dei secoli successivi, praticamente fino a oggi, questa è stata la base indispensabile su cui poteva essere realizzata un’architettura. Nessun giudizio di valore quindi, ma solo accertamento di appartenenza.

Ci chiediamo ancora una volta: se questo è il significato che ha attraversato i secoli senza subire contraccolpi letali, è lecito al giorno d’oggi chiamare architettura un prodotto intellettuale mancante anche di uno solo di tali requisiti? Vi può essere un’architettura non vitruviana, basata cioè su principi diversi da quelli? E se vi fosse, sarebbe giusto aggiungere al termine un aggettivo che serva a qualificarla segnalandone i limiti e la diversità dei requisiti? Il rischio potrebbe non essere cosa da poco, l’oggetto prodotto potrebbe non appartenere al genere “Architettura”.

A ben vedere, con il suo celebre trinomio Vitruvio non intese limitarsi a redigere un elenco di tre pur indispensabili qualità, ma volle offrirne una sintesi racchiusa in un triangolo isoscele: due lati uguali per indicare la Utilitas e la Firmitas, il terzo più corto o più lungo, corrispondente alla bellezza. All’interno, lo spazio che spetta all’Architettura di riempire. Ed è proprio lo spazio l’elemento caratterizzante di un edificio: esige la stabilità e la durevolezza dell’involucro che lo delimita, vuole le siano assicurate la massima funzionalità e resistenza e, infine, richiede il contributo decisivo onde suscitare le straordinarie emozioni della bellezza.

Il processo progettuale

Il progetto: un concentrato organico di idee nel quale si scorgono le motivazioni e gli obiettivi che si intendono raggiungere con il nuovo edificio, il suo futuro rapporto con l’ambiente nel quale verrà costruito, i problemi legati alla funzionalità nelle sue più diverse accezioni, la soluzione dei problemi statici e la scelta dei materiali da usare sia in dipendenza dei predetti problemi, sia in rapporto alla resistenza opposta al tempo che trascorre imperturbabile.

Tutto ciò può essere in buona parte raggiunto ricorrendo all’esperienza accumulata nel tempo, specialmente nell’ultimo mezzo secolo, dai nuovi materiali e dalle strutture della statica, che sono in grado di rendere stabile un’architettura.

Si cerca un rapporto equilibrato con l’ambiente e con la tradizione del luogo. Quest’ultima ha maturato alcune soluzioni e le ha considerate come le più efficienti a riguardo della loro specifica funzione e del clima nel quale hanno trascorso secoli. Prenderne nota per usarle nel modo migliore significa risparmiare tempo e trovarsi orientati verso la soluzione giusta.

Effettuata la scelta della soluzione più coerente con il clima, l’ambiente e gli scopi da raggiungere, occorre procedere alla progettazione dell’organismo nella sua totalità. La destinazione del complesso da realizzare è dato di committenza: gli architetti non costruiscono per soddisfare le propri esigenze, ma per soddisfare quelle dei committenti. L’architetto ha da porre a disposizione la propria esperienza e le proprie doti, che gli suggeriranno la soluzione più idonea, sia per i costi da non superare, sia per le funzioni da svolgere.

Basta esaminare la soluzione di Wright adottata nella Casa sulla Cascata e confrontarla con la le-corbusieriana Ville Savoy, per rendersi conto della varietà delle interpretazioni possibili ove si voglia percorrere solo l’antico sentiero lontano le mille miglia dalla Bibbia decostruttivista.

D’altro canto, una chiesa, una stazione ferroviaria, una fabbrica di birra, un teatro, sebbene possano seguire modelli ben diversi l’uno dall’altro, per la stessa funzione debbono possedere requisiti formali tali da farli riconoscere per quelli che sono e devono essere.

Decostruire, ricostruire

Fare a pezzi un giocattolo e poi ricomporlo è un’operazione che presenta qualche difficoltà. Se prendete tre bimbetti e li ponete di fronte al problema, ubbidiranno con entusiasmo, troverete i pezzi ammucchiati in un angolo dopo una decina di minuti. Il bello viene nel rimontaggio, perché per quello occorrono non solo doti di memoria visiva e d’immaginazione, ma anche esperienza. Ed ecco allora che il giocattolo viene ricomposto a fatica probabilmente quadrupla di quella precedente. È anche probabile che nessuno dei tre sia riuscito a rimontare il giocattolo nello stesso ordine con cui gli era stato consegnato. I pezzi che avanzeranno alla conclusione dell’operazione saranno più di uno. Al primo dei tre bimbetti avanzeranno sei pezzi, al secondo due, al terzo quattro.

No, non volevo rappresentare in termini diversi il processo di decostruzione-ricostruzione ideato da Derrida. Nel cuore di quell’operazione introspettiva occorre interpretare i risultati parziali. Il processo non è “indiziario”, ma indica il procedere verso un obiettivo. Occorre saperlo leggere con rigore e fantasia per cogliere le sue singole fasi. E, del resto, gli stessi risultati lo dichiarano, a posteriori.

C’è chi resta fedele a un’indicazione che gli suggerisce le linee fondamentali e il rapporto con l’architettura fa capolino in modo originale. In altre occasioni, la fantasia finisce col sottrarre al progettista un equilibrio che non dovrebbe mai essere perduto. Si ha, allora, non un’architettura, ma un mostriciattolo che grida il suo disagio quasi fosse consapevole dell’esistenza di leggi come quella di gravità che non possono essere ignorate, nemmeno per burla. Sono dunque queste le novità decostruttive? Ci si accontenta di prendere strutture finite, edifici di cinque, sei piani e di deturparli facendo loro assumere posizioni che ne denunciano gli squilibri, non solo formali, ma anche statici?

Vi sono esempi di buona fede progettuale che hanno avuto successo. Altri che si lasciano dietro la scia di una stanca furberia di mestiere, che è il peggiore degli insulti. E non risparmia nessuno.

Il rumore di fondo dei “movimenti”

Il secolo scorso ha mostrato tutte le sue contraddizioni favorite dall’assenza di una comune idea di progresso. Il manifesto futurista di Marinetti ne aveva indicata una, dopo di che si è scatenata la corsa per il suo rapido sviluppo. Non solo Arte, quindi, ma una critica sociale che nel corso del Novecento ha distrutto tutto il distruggibile. Ma non ha distrutto l’uomo, anche se era uno dei suoi principali obiettivi e, allo stesso tempo, una delle sua più grandi contraddizioni. E l’uomo è emerso nuovamente in tutta la sua splendida vitalità.

Solo per quanto riguarda l’architettura, il panorama delle tendenze e dei movimenti degli ultimi cento anni ne raccoglie non meno di una ventina. Secessione Viennese, Movimento Moderno, Modernismo, Futurismo, Architettura Organica, International Style, Razionalismo, Bauhaus, Art Nouveau, Neoclassicismo semplificato, Monumentalismo, Neorealismo architettonico, Brutalismo, Funzionalismo, Costruttivismo, Post-costruttivismo, Post-moderno, Decostruttivismo, Eclettismo.

Inquietudine? Fervore innovativo? Voglia di cambiare? Ricerca di un nuovo modo di esprimersi? Disorientamento? Insoddisfazione dell’attualità in coincidenza di una condizione di asservimento alla Storia o forsennata ambizione di esplorare l’ignoto? La conseguenza di una nuova condizione umana sorta dall’idea di progresso che costringe a ricercare il mai sperimentato prima, quasi un morbo che costringe a inoltrarsi nel non noto del mondo delle forme e a cercare il nuovo ovunque, in qualunque momento e a qualunque costo? Difficile dirlo.

Novità in architettura

Alla diversa denominazione dei movimenti, non sempre corrisponde una chiara diversità degli obiettivi o delle teorie che vi sottendono. Al contrario, all’interno di un movimento si possono riscontrare atteggiamenti che ne sono palesemente estranei, e che talvolta sono presenti in altre correnti. Forse è ancora presto per una storia degli avvenimenti architettonici del periodo contemporaneo. Chissà se il tempo non possa portare consiglio e, una volta eliminato il polverone dei tentativi fin qui svolti, non si incontri la lucidità necessaria per dare ordine e chiarezza a ciò che oggi non è né chiaro né ordinato.

Si può solo anticipare che alcuni movimenti hanno trovato la loro legittimazione nei mutamenti sociali avvenuti o programmati, come per Le Corbusier e il Futurismo, o nel desiderio di contribuire all’estetica di un minimalismo rigorosamente razionale, come per il solitario Mies, ossessionato dal rigore geometrico delle sue costruzioni, o per i razionalisti italiani, impegnati a respingere il monumentalismo suggerito dall’esaltazione dei nuovi destini imperiali del fascismo. O, ancora, in una diversa disposizione intellettuale che ubbidisce agli incontrollati ma irresistibili stimoli formali della Storia, come per il Postmoderno e il suo perfetto contrario, il Decostruttivismo, oppure nei rapporti affettivi con l’ambiente, come era già accaduto per Wright.

Un cambiamento vertiginoso

Per tutto ciò che sta accadendo in questo terzo millennio appena scalfito, almeno per quanto attiene l’architettura si intravedono prospettive di libertà mai fin’ora sperate. Si avverte con qualche sorpresa la responsabilità che a tale libertà si accompagna. Hans Jonas si fa ricordare per le sue parole profetiche:

Non più tutori che ci indicano la direzione giusta: dovremo decidere da soli. Ogni scelta diverrà rischiosa, nulla sarà più deciso dall’esperienza degli altri e resteremo soli a risolvere il nostro problema che, nel frattempo, avrà assunto nuovi caratteri e nuove dimensioni e sarà divenuto più complesso. Non basterà affrontarne le sole modalità risolutive.

Ci troveremo soli di fronte a uno sterminato orizzonte di infinite possibilità e saremo tentati di sceglierne una o di studiarne un’altra completamente nuova. Gli altri ostacoli riguarderanno gli aspetti formali, anch’essi da risolvere in piena libertà e con alcuni intricati nodi da sciogliere. La varietà dei nuovi materiali, le loro molteplici possibilità d’impiego, i loro diversi comportamenti rispetto al sole, all’inerzia e alla resistenza termiche, alla statica in rapporto al proprio e ai pesi da sostenere.

E poi l’evoluzione delle tecnologie, che consentono nuove soluzioni statiche, nuove modalità d’impiego dei materiali tradizionalmente usati in architettura – ferro, legno, cemento - in grado di renderli maggiormente idonei al loro utilizzo. Infine, l’inserimento nel processo progettuale del computer, che ha costretto alla pensione tutti gli attrezzi in uso fino a qualche decina di anni or sono e, soprattutto, le sue immense capacità di riprodurre figure a tre dimensioni consentendo di svolgere in poche ore esperienze che con i modellini di plastilina si sarebbero prolungate per molti mesi.

S’impone una riflessione: può esservi libertà senza doveri e senza regole? Può sembrare un controsenso, ma la risposta è una sola: NO!

Ed ecco spuntare il problema più spinoso a complicare la prospettiva, la forma. Chi guiderà il mouse per rappresentarla in coerenza con la funzione? La logica deduttiva, l’intuizione, l’estro, il cosiddetto gusto, ovvero quella spinta emotiva che ci suggerisce di seguire una strada anziché un’altra e che controlla la rotta della nostra fantasia ormai libera dai solidi ormeggi dei canoni e delle regole? Ecco pronto il rimedio: la decostruzione, un processo miracoloso.

3. Riflessioni

Forma e funzione: l'intimità di un rapporto

Quali rapporti vi sono tra la forma e la funzione che la sottende? E quali altri vi sono tra la forma e la tecnologia che la realizza? Al mutamento della funzione o della tecnologia, seguirà il mutamento della forma per i necessari adeguamenti? Quale senso può avere la gratuità della forma nonostante il richiamo della funzione?

C’è un rapporto strumentale tra forma e funzione, tanto che si potrebbe concludere: per una certa funzione vi è una forma che la soddisfa più di ogni altra. Un rapporto esiste, ma sarebbe errato pensare che esso abbia un carattere unico. Un esempio? Un palazzo rinascimentale con magnifiche sale, inizialmente costruito per essere abitato, in tempi successivi può esse adibito a museo. Ve ne sono un po’ dovunque.

I rapporti tra forma e tecnologia possono essere più stretti, specie quando la tecnologia è chiamata a risolvere un problema di ordine statico sul filo delle sue massime prestazioni. Le soluzioni strutturali introdotte da Pier Luigi Nervi ne sono un esempio illuminante. Tuttavia, in costanza di tecnologia le forme possono presentarsi con modalità diverse le une dalle altre. È accaduto con la tecnologia della pietra e con quella del mattone. Può accadere anche con quelle - ancor più duttili - dell’acciaio e dei metalli in generale. Come si può constatare, il quesito non è peregrino. Il gioco è aperto e qualcuno ha già incominciato a esprimere il proprio punto di vista e a trasformarlo in realtà architettonica.

Che cosa può accadere in una città? Per quanto i condizionamenti dovuti alle preesistenze di varie epoche siano inevitabili, tra l’ambiente costruito e gli architetti non vi è mai stato un rapporto di sudditanza. Pur imbrigliata da regole urbanistiche ed edilizie da rispettare, la ribellione vi è stata e l’architetto ha sempre teso a imporre il proprio punto di vista. E sì che le idee dominanti riferite alla bellezza e all’arte si basano su presupposti di perfezione assai lontani nel tempo e, anche se non vengono posti nel platonico mondo iperuranico, i modelli che potranno essere raggiunti sono tutt’altro che esauriti. Sicché, l’inquietudine e il desiderio umanissimo di lasciare sul pianeta la propria impronta, insieme a un’incontenibile forza interiore, spingono i singoli operatori a trasgredire regole, canoni e dogmi e a esprimere se stessi in un quadro di discontinuità controllata. Né vengono a mancare esempi di interventi nei quali la forma si impone per aver soffocato qualsiasi tentativo di soddisfare la funzione, pretendendo di restare unica e sola.

Che cosa c’entra tutto ciò con l’architettura che, in fondo, è l’arte di rispondere con estro ed eleganza formale alle nostre ruvide esigenze?

Inerzia della forma e labilità dell’immagine

Quando una forma si è insediata nella nostra mente, la sua rimozione non è priva di resistenze. Basta esaminare l’arco di Trionfo realizzato nei parigini Campi Elisi per comprenderne la discendenza di un altro arco famoso, quello di Tito.

Nel corso della storia dell’architettura si annotano periodi in cui è prevalsa la tendenza conservatrice, votata al rispetto delle conquiste formali raggiunte nel corso dei precedenti secoli. A questi si sono alternati altri periodi nei quali ha prevalso un istinto rivoluzionario non sempre accompagnato da una logica che introducesse l’evoluzione verso nuovi contenuti e nuove forme. L’Ottocento si è caratterizzato per questa seconda forma evolutiva, cambiando buona parte del mondo e, con il mondo, l’uomo. Vi è stata una profonda rivoluzione tecnologica che ha consentito l’avvento di nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione.

Soffermiamoci qui. Se è vero che le maggiori accelerazioni evolutive corrispondono all’insorgere di nuove esigenze legate ai mutamenti sociali e alle nuove avventure tecnologiche, l’Ottocento ha proposto novità assolute, sia per il sopraggiungere di nuovi materiali e di nuove tecnologie, sia per nuove necessità quali strade ferrate, ponti e stazioni. Tra i tanti problemi da risolvere per realizzarli nel più efficace dei modi, non si può sottacere la marcata difficoltà incontrata per studiare le forme più adatte a tali novità.

La stessa difficoltà si è riscontrata quando è stata realizzata per la prima volta l’auto, un veicolo semovente destinato a sostituire la vecchia carrozza a cavalli. Ebbene, le resistenze di ordine estetico opposte dal gusto corrente e da superare per giungere alle forme definitivamente acquisite nella prima metà del Novecento, sono state tali da ritardare per anni i nuovi assetti. Così, si sono costruiti veicoli del tutto simili alle vecchie carrozze, con la sola eliminazione delle stanghe.

Né si possono dimenticare stazioni ferroviarie capaci di trarre in inganno gli osservatori per la loro forma del tutto simile a una cattedrale gotica. Ciò che avrebbe dovuto essere l’ostacolo minore, alla prova dei fatti era divenuto un problema di difficile soluzione: le diversità formali venivano accettate con minore entusiasmo delle diversità sostanziali. Il nuovo della tecnologia era tanto gradito quanto non lo era la nuova estetica che la stessa tecnologia suggeriva.

Opacità della pietra, trasparenza del vetro

Il “corpo” dell’Architettura è la materia con cui essa viene concretizzata e, mentre si evolve nel tempo, conserva la sua fisicità e la modella secondo la materia con cui si realizza. I Greci si limitavano a sovrapporre una pietra sopra l’altra e la abbellivano con colonne e pilastri. I Romani vi aggiunsero il calcestruzzo pozzolanico che avrebbe loro consentito di coprire spazi di grandi dimensioni come il Pantheon, la cui cupola veniva alleggerita man mano la sua costruzione si spostava verso l’alto grazie alla diminuzione degli spessori e all’uso di materiali più leggeri come la pietra-pomice. Nel periodo romanico e in quello gotico sono state realizzate straordinarie cattedrali, ove venivano utilizzate con grande maestria ambedue le tecnologie.

Brunelleschi, nel periodo che si apre alla Rinascenza, riuscì a costruire la sua cupola pezzo per pezzo e giorno dopo giorno, senza fare uso di armature provvisionali. Non usò nemmeno il calcestruzzo. Nondimeno, elevò sulla sua cupola una “lanterna” marmorea a 96 metri dal suolo della piazza che circonda il Duomo e il Battistero.

Nei secoli a noi più vicini, il Sette e l’Ottocento, a prevalere sono stati i nuovi materiali, il vetro e il ferro, assistiti da nuove tecniche e nuove tecnologie.

Il vetro e il ferro, entrambi utilizzati per realizzare strutture la cui caratteristica principale era la trasparenza alla luce esterna. Usati all’inizio per chiudere i grandi vani delle grandi superfici finestrate, hanno finito per trasformarsi in vere e proprie pareti trasparenti. Inutile ricordare i fenomeni fisici cui hanno dato luogo, primo fra tutti il cosiddetto effetto serra. La regolazione di tali fenomeni è stata oggetto di studi particolari a seconda delle zone climatiche ove venivano collocate. Scopo: raggiungere le condizioni climatiche più idonee all’uso cui i luoghi protetti erano destinati.

Architettura: il tempio della Bellezza

ll londinese palazzo di cristallo fu uno dei primi esemplari, seguito da quei grandi spazi chiusi e luminosi raccolti nel parco reale di Versailles, nei giardini che costeggiano i parigini Campi Elisi e in quell’esempio tutto-ferro qual è la Torre Eiffel, che di Parigi è divenuta il simbolo.

La tecnologia del ferro, dell’acciaio e del vetro, doveva caratterizzare buona parte dell’architettura ottocentesca. Ai due materiali doveva aggiungersi un impasto di antico lignaggio, nel frattempo reso più efficiente per effetto della sostituzione della pozzolana con il cemento di precedente produzione. Tale calcestruzzo cementizio consentiva di predisporre un impasto che, unito al ferro con cui si cementava nel breve periodo della sua maturazione, doveva offrirsi all’estro immaginifico degli architetti. I quali, abbandonato ogni rapporto con le forme consentite dalle rudimentali tecnologie utilizzate, potevano inseguire e raggiungere i più stravaganti interventi formali. Nel corso dei secoli, l’evoluzione tecnologica a disposizione degli architetti ha consentito di realizzare – fermi i punti cardine vitruviani dell’Utilità, della Stabilità e della Bellezza – nuove forme per soddisfare nuove esigenze.

Verrebbe voglia di concludere che in appena duemilacinquecento anni, l’architettura ha sostituito i propri Dèi, ma non i propri principi e, da politeista qual era, è divenuta monoteista: segue il culto della Bellezza, o quel che viene letto per Bellezza e prevale su tutto.

Regole, libertà e innovazione

Ciò che oggi è nella disponibilità di una famiglia dal reddito medio, appena un secolo fa avrebbe potuto essere appannaggio soltanto di alcune grandi famiglie. Tenendo conto della loro enorme diffusione, possiamo affermare di disporre oggi di beni, attrezzature, meccanismi e impianti con capacità e caratteristiche tali - a cominciare dai satelliti artificiali orbitanti intorno alla Terra, per finire agli smartphones con i quali si inviano a San Francisco o a Tokyo email con foto in pochi secondi – per cui, se osserviamo con gli occhi dell’antenato a noi più vicino, tali marchingegni non possono che essere citati con l’aggiunta degli attributi “magico”o “miracoloso”. Roba da far invidia alla Lampada di Aladino e a Mandrake, il celebre illusionista del fumetto americano anni Trenta. Tutto ciò non poteva che sconvolgere le società umane in un’attesa miracolistica.

Una delle prime conseguenze è stata la fiducia nell’onnipotenza dell’uomo e delle sue capacità di dominare la natura. Da qui l’idea della “selezione dovuta all’efficienza”, un processo secolare ove nulla era stato lasciato al caso. Tra tante, hanno finito con l’essere scelte e accettate le soluzioni tecniche ritenute più efficienti, sia si trovassero tra le minuzie della vita quotidiana, sia nelle più impegnate avventure della produzione architettonica.

Il motivo di una tale scelta era dei più elementari: da un lato ciò che aveva funzionato bene ogni giorno e per anni avrebbe dovuto essere conservato; dall’altro, ciò che non aveva funzionato e meritava di essere abbandonato. Una lenta ma sicura selezione attuata sul piano pratico e vincente su quello tecnico. Tutto si è svolto progressivamente, quasi naturalmente: nessuno ha scoperto regole e canoni se non a posteriori, quando tutti li avevano ormai riconosciuti e, tutti, avevano contribuito a renderli necessari.

L’attuale fervore, che ha procurato sorprese, accelerazioni improvvise e mortificanti decelerazioni - al punto da sovvertire equilibri secolari e da proporre la totale eliminazione dei cardini sui quali si era mosso fino a oggi il progresso, o almeno quello che noi chiamiamo con tale nome – potrà non lasciare traccia alcuna sulla società attuale e sugli individui che la compongono?

Ecco allora che in un processo a due velocità, quella della scienza e della tecnologia e quella della vita quotidiana rallentata dall’inerzia delle abitudini, s’insinua il virus della rivolta e si cerca di riprendere il tempo perduto. Improvvisamente si avverte che tutto è superato: la libertà vuole i suoi vincitori e le sue vittime che, in questo caso, sono i canoni, le regole, i dogmi e i millenni di una Storia di condizionamenti. Meglio la libertà, anche se essa può nascondere il rischio mortale dell’arbitrio.

Le regole auree della libertà

Vi è una verità da non dimenticare: la libertà deve rispettare alcuni limiti, se non vuole degenerare in arbitrio.

Se il segno di un orientamento, qualunque esso sia, non si scorge più, «se Dio è morto», come avrebbe detto Nietzsche, allora tutto è possibile. Ed ecco avanzare il grigio ed evanescente paesaggio dei paradisi immaginari distopici così ben descritti da Tibor Déry nel suo “Il signor A.G. nella città di X”. Ecco i più fragili prendere la strada dell’annientamento delle idee, mentre altri si fanno sotto con proposte prive di ogni risorsa che le possa radicare nell’humus ancora fertile e vitale della società in rinnovamento.

Può accadere che l’immagine di cui si possono scorgere i contorni sia dolorosa. Può accadere, cioè, un fenomeno terribile. L’uomo viziato dalle teorie che sembrano avvolgere su di sé il filo della ragione, si spegne e lascia libero il percorso della tenzone all’uomo che si esalta per aver finalmente perduto ogni rapporto con la concretezza di un mondo cui sente di non appartenere. Infine, si abbandona al delirio della forma, il cui significato, assente, non ha alcuna pretesa di esistere.

Si insinua un dubbio. È proprio vero che una rivoluzione in architettura per essere tale deve annientare ogni regola? Non sarebbe più giusto tentare di adeguare le novità destinate a modificare dal profondo la cultura – non solo quella artistica - della società nei confronti di quella nella quale siamo immersi? Potrebbe aprire il nostro animo al tentativo di predisporlo ad accettare regole altre e diverse, per un’architettura anch’essa altra e diversa, adeguata a una società diversa.

Chissà perché, ma qualcuno è sordo a tale richiamo e conduce la rivolta contro le regole – passate, presenti e future - agitando il vessillo della libertà. Non è dato sapere se ne sia convinto o se, invece, si muova nel dubbio e tema in cuor suo di trovarsi vittima di un imperdonabile equivoco. Occorre scegliere tra libertà e anarchia, tra libertà e arbitrio. La libertà non significa solo disporre di diritti avendo abolito ogni dovere.

Quando l’architettura è comunicazione

Basta una citazione per esemplificare: l’Arco di Tito a Roma. Nessuno può negare che esso sia un’architettura rispettosa del trinomio vitruviano. Infatti, lo scopo per cui l’Arco è stato costruito, ovvero la sua funzione, è stato abbondantemente raggiunto. I secoli sono trascorsi e l’Arco è ancora lì a ricordarcelo. Di Tito si potranno dimenticare le gesta, ma difficilmente si dimenticherà l’Arco che è ancora trionfalmente lì, nelle vicinanze dell’Anfiteatro Flavio, a ricordarcelo. La Utilitas dell’Arco è racchiusa interamente nella sua grande efficacia di “simbolo-comunicatore”.

Nel corso di due-tremila anni di architettura, gli esempi sono straordinariamente frequenti. Anche perché la Venustas, allorché afferma i suoi diritti a essere apprezzata, ammirata e ricordata con qualche gradevole emozione, di fatto esercita un potere: il potere della comunicazione.

Se ne sono accorti gli osservatori della EXPO parigina di fine Ottocento, quando l’ultimo sguardo alla città prima della loro definitiva partenza fu rivolto alla Torre Eiffel svettante nel cielo ingombro di nubi. Dopo un anno o due, la memoria dell’osservatore si concentrava poi sulla Torre, ormai divenuta il simbolo di una città grande e viva.

Norman Foster licenziò un capolavoro di comunicazione quando consegnò ai banchieri della Banca di Hong Kong il nuovo edificio che avrebbe dovuto farla conoscere in tutto il mondo. Qualcosa di molto simile fu ripetuta al Guggenheim Museum di Bilbao progettato da Frank Gehry, che, noncurante del precedente felice esperimento di Wright a New York, volle ugualmente tentare. Il risultato fu eccezionalmente positivo. Un milione di visitatori all’anno durante i primi tre anni. Quella strana architettura, che trovava la sola rivalità nella sala della musica costruita dallo stesso Gehry a Los Angeles, si era impadronita di un potere comunicativo eccezionalmente efficace.

La Bellezza, una straordinaria risorsa economica

Continuiamo con gli esempi precedenti. Se l’arco dedicato a Tito può soddisfare la vanità dell’Imperatore romano, sicuramente la funzione dell‘exploit di Foster a Hong Kong acquista un significato diverso, quello economico. Propagandare Hong Kong e la banca così chiamata ha sicuramente significato far conoscere quell’Istituto in tutto il mondo. E se si è sicuramente trattato della diffusione di un nome cui corrispondeva una banca, il messaggio non si è limitato solo a questa indicazione, ma ha anche emesso segnali rassicuranti sulla serietà e sulle dimensioni dell’Istituto.

L’architettura, infatti, con la sua presenza e la sua eccezionale durata nel tempo assolve anche una straordinaria funzione rappresentativa e rassicurante a riguardo della serietà e solidità di chi ha avuto tale iniziativa e ne può rivendicare la proprietà.

Un altro caso? I due musei costruiti a Nev York da Wright e a Bilbao da Gehry per i Guggenheim. Nessuno può negare che le opere ivi raccolte, scelte dai critici di cui i grandi costruttori dispongono, costituiscono una sicura garanzia per gli eventuali acquirenti. Non solo amore per l’arte, quindi, ma un nobile stratagemma per la valorizzazione delle collezioni.

L'origine della bellezza

La bellezza è un tema che ha impegnato gli ozi dell’umanità fin dall’inizio, quando qualcuno ha posto due oggetti simili uno accanto all’altro e si è espresso così: «Il primo mi piace di più».
Poi, incuriosito, si è domandato: «Perché mi piace più dell’altro»? Dopo aver riflettuto un’intera notte, finalmente avrà esclamato: «Perché ha qualcosa in più dell’altro. È bello!»

Avrà pronunciato quell’ultima parola, bello, senza conoscerne il significato. Toccava a lui darglielo, se nessuno ci aveva pensato prima. Cos’era dunque quella qualità in virtù della quale si era pronunciato dicendo: «Questo oggetto mi piace più dell’altro?». Saranno state diverse le notti insonni. Poi, fattosi coraggio, tra sé e sé, quasi vergognandosi, avrà detto a voce bassa: «Bellezza! Sì, chiamerò bellezza tale qualità, anche se non riesco a capire perché un oggetto mi piace più dell’altro».

Come al solito saranno giunti i teorici. Gli spiriti liberi che avevano chiamato pane il pane e vino il vino. Anche loro si saranno arresi sul fronte del soggettivo e avranno pronunciato la loro sentenza.

Solo più tardi avranno cercato di capire i motivi per i quali l’immobile forma di un oggetto riesce a suscitare uno stato di agitata ammirazione.

A quel punto, la materia era matura per cadere nelle mani dei filosofi che hanno descritto la bellezza non più solamente come capacità di suscitare emozioni, ma indicandone le qualità oggettive: le qualità della sua forma. La hanno esaminata senza nessun altro fine pratico che il trovare un ordine astratto capace di soddisfare una sensibilità più tardi chiamata “estetica”.

Un gioco infinito tra oggettivo e soggettivo

Chi per primo ha avuto l’idea di Bellezza e ne ha tessuto gli elogi, non immaginava quali sarebbero stati i guai nei quali avrebbe cacciato i suoi posteri. Da millenni, in molti si sono sforzati di intuire che cosa essa sia. Hanno tentato di descriverla con le parole o con gli esempi e hanno cercato il modo migliore per descriverla da tutte le prospettive possibili. Di volta in volta si sono alternati poeti, filosofi, architetti, scultori, pittori, artigiani, e lo hanno fatto concretamente o da sognatori. Si sono svolte analisi filosofiche per carpire le qualità particolari per le quali un oggetto qualsiasi potesse meritarsi l’attributo di “bello”.

Hanno perduto il sonno in cento o in mille, a tutte le latitudini e in tutti i tempi. Quando l’obiettivo sembrava raggiunto, puntuale sopraggiungeva il crollo di ogni certezza: l’idea di Bellezza sfuggiva a ogni tentativo di impadronirsene, svaniva nel nulla e tutto tornava a essere vago. Un rebus, irrisolvibile per giunta, nonostante gli affanni delle generazioni. La bellezza restava lì e resisteva beffarda a ogni attacco. I Greci, secondo l’usanza, la trasformarono in una Dèa che Fidia e Callicrate cercarono a loro modo di immortalare con opere degne dell’Olimpo. Fissare la bellezza nel marmo di una statua o nei marmi di un tempio, darle un’identità con i colori stesi su una tavola o su un intonaco, è stato un impegno che ha assorbito le energie di molte vite spese unicamente per lei, la Bellezza, una divinità tanto esigente quanto ineffabile.

Sottovoce e senza darlo a intendere, anche la consumata imperturbabilità del disincantato mondo attuale insegue il mito della Bellezza. Magari con mezzi che suscitano qualche perplessità e per vie che appaiono condurre altrove.

Sono convinti che la Bellezza altro non sia che una convenzione dovuta alla nostra indole e alla nostra cultura. «Eccone le prove!», esclamano, e fanno scorrere il passato nel suo inquieto polimorfismo che, specie nei tempi a noi più vicini, sembra sfuggire alle leggi convenzionali della Bellezza. «Ma quali leggi!», gridano, «La Bellezza non ne ha. È solo il frutto di un gioco sapiente e involontario di specchi dove, all’improvviso, tu appari a te stesso! È la tua anima riflessa ad apparire… Non vi sono leggi uguali per tutti: senza rendersene conto, ciascuno segue le proprie, in qualche misura unificate dal filtro di una stessa cultura».  

L'ineffabile portata di una cultura

Il bello e il brutto non esistono in assoluto come qualità dell’oggetto, ma si manifestano quali attributi in funzione di una reazione psicologica e del giudizio espresso dal soggetto che li osserva. È il soggetto che, sollecitato dall’oggetto, ne decreta la bellezza o la bruttezza in forza della propria sensibilità affinatasi nella cultura di cui si è sempre nutrito. L’oggettività apparente del bello e del brutto si riduce a mera categoria culturale. Entro tali limiti delineati dalla cultura di un popolo e di un’epoca, la bellezza può essere considerata oggettiva. Ne deriva che la sua oggettività altro non è che il frutto di una cultura.

Il bello e il brutto si limitano dunque a essere generatori di sensazioni che si manifestano nel soggetto grazie ad assonanze di ordine culturale. Infatti, tra oggetto e soggetto si stabilisce un circuito che consente il passaggio di impulsi visivi, i quali possono generare nell’osservatore quelle sensazioni di ammirazione o di repulsione su cui sorge il giudizio estetico. L’idea di bello e di brutto non si addice dunque all’oggetto se non nei limiti appena indicati. Sta nel sentire comune, sorto in una cultura comune e manifestatosi in un giudizio e in un sentimento comuni. L’oggettività del bello e della Bellezza è espressione di fattori culturali che si esplicitano con un giudizio.

Si leva una voce: «Se nell’ambito di una stessa cultura molti possono giudicare bello o brutto un oggetto in forza di alcune sue caratteristiche, come è possibile negare che dette caratteristiche, proprie di quell’oggetto, non siano anche i dati oggettivi grazie ai quali l’oggetto stesso è stato da tutti dichiarato bello o brutto? Ecco allora dinanzi ai vostri occhi, l’oggettività che avete finora negata».

La risposta non si fa attendere: «Attenzione, ragazzi. Quei dati oggettivi altro non sono che il portato di quella stessa cultura che si pone come quadro generale ove accanto al bene e al male, seggono il bello e il brutto».

Non so se gli scarafaggi siano dotati di un simile sentimento capace di mobilitare una coscienza del bello e del brutto. Tuttavia sono convinto che, indipendentemente dalle opinioni di Kafka, saranno molte le circostanze nelle quali essi riusciranno a apparire bellissimi e a suscitare invidia o attrazione in altri scarafaggi…

Dovremmo concludere che la bellezza è effimera, che non può prescindere dalla cultura, dal costume - quindi dalla Storia - e ha vita assai precaria soprattutto nei periodi in cui sono massime le tensioni culturali essendo essa assoggettata al cambiamento delle ideologie e dei gusti estetici che ne derivano.

Originalità e stravaganza, contro la Storia

Consideriamo l’ultima affermazione secondo cui la Bellezza viene alimentata dalla cultura e dal costume di una società. È quindi, a pieno titolo, nella Storia. Ed è qui che nasce il contrasto – insanabile – tra le teorie che la descrivono e la teoria decostruttiva di Derrida. Un contrasto decisivo per l’Architettura che, comunque la si voglia leggere, occupa il mondo della concretezza pratica indissolubilmente legato alle vicende estetiche e alla Storia.

Cerchiamo di renderne ragione. La Bellezza, che sta con la forma sensibile, si colloca sul piano della cultura e del costume. Così come la Storia, che è anche il piano del relativo. La decostruzione di Derrida, annunciata quale premessa a una ricostruzione, si muove sul piano ideale e si propone di raggiungere il trascendentale, cioè intende percorrere la strada dell’Assoluto. Che è come dire l’esatto contrario di quanto si propongono Derrida e la sua l’Architettura.

Accade che la Bellezza costituisca il principale e più apprezzato obiettivo dell’Architettura. La sua assenza la degrada e la relega nello sterminato cimitero dei manufatti edilizi ove non le sarà più possibile alzare la testa. I decostruttivisti avevano buona nozione di tale destino e hanno cercato di evitarlo sostituendo la bellezza con l’originalità e la stravaganza. Hanno preteso il massimo impegno dalla loro fantasia e dalla loro disponibilità all’ironia. Hanno ritenuto l’originalità della forma di un edificio lo scopo principale della sua realizzazione. Portando agli estremi l’originalità, sono riusciti, talvolta, a scandalizzare non solo il pubblico di opache sensibilità, ma quello smaliziato dei critici di lungo corso. Per i costruttivisti, infatti, Bellezza e stravaganza sono sinonimi.

L’assenza della Storia nelle proposte derridiane e, anzi, la loro dichiarata antistoricità processuale conferisce al decostruttivismo il carattere fondamentale di antitesi allo storicismo, rendendo impossibile il colloquio con chi ha scelto di vivere e operare nella Storia. Vengono così a mancare esperienze e significati comuni, cioè la base minima affinché un colloquio possa avere luogo. È questa constatazione che consente di giungere a dichiarare in gran parte incoerenti le applicazioni all’Architettura dei processi decostruttivi.

Ciò conduce a una drastica conclusione: il brevetto decostruttivista concesso all’Architettura dei magnifici sette, per alcuni ha da essere considerato poco più di un incoraggiamento: vera e propria contraddizione antinomica - come del resto Frank O. Gehry, con le cautele che gli sono proprie, ha avuto modo di affermare.

Se i desideri non ci sono, allora occorre crearli

La Bellezza incanta. Possiamo usare un tale incanto e renderlo strumento di comunicazione, capace di comunicare desiderio di possesso?

Per trovare una risposta, possiamo cominciare dalle conclusioni: la Bellezza è effimera, sta nella società, quindi nella Storia, e può avere vita precaria. Più o meno rapidamente, può decadere e risorgere. Soprattutto nei periodi di massime tensioni culturali, essendo soggetta al cambiamento delle idee e dei gusti estetici che ne possono derivare.

Ciò è felicemente dimostrato dalla moda le cui espressioni cambiano e devono periodicamente cambiare. La moda quale singolare sottoprodotto dell’arte e della cultura, dimostra anche qualcos’altro: il gradimento delle forme “può” essere orientato, quindi corretto e modificato. La sua forza di comunicazione e di persuasione può influire sul costume e, quest’ultimo, sulle scelte che a loro volta inducono rapide mutazioni nei gusti e nei desideri. È noto: la moda ha dato nuovo impulso alla valorizzazione della comunicazione e del potere di persuasione posseduto dalla Bellezza. E non tanto per averla scoperta o riscoperta, quanto per averne esaltato il fenomeno emotivo che da sempre si è manifestato verso ciò che avvertiamo bello.

La moda si propone oggi come il prodotto di processi industriali svolti entro i tempi serrati di un crono-programma rigidamente rispettato, cioè come risultato di una strategia globale che prevede con buona approssimazione la qualità e la quantità del prodotto e il budget delle vendite e dei consumi. Una possibilità, quest’ultima, che si inserisce utilmente nel ciclo ricorrente del mercato con: a) lo stimolo del desiderio di possesso; b) la produzione dell’oggetto desiderato; c) la vendita dell’oggetto prodotto.

In un mondo ove tutto, o quasi tutto, soggiace all’interesse singolo o collettivo, perché non provare a trasformare la Bellezza, che per solida tradizione ha per scopo solo se stessa, in una specie di persuasore occulto da porre a servizio del mercato? Il bello non occupa solo il più alto vertice estetico di una disinteressata speculazione intellettuale, non è solo in grado di suscitare sentimenti di ammirazione, ma può divenire agente provocatore di entusiasmi e di desideri. Dove esiste il calore dell’entusiasmo e la fiamma del desiderio, anche l’algida ragione si surriscalda e finisce col cedere. Il bello può esercitare su di noi un’azione assai forte. Perché non sfruttarla?

L’Architettura non conosce precarietà

Nella società attuale vi è tutto e di tutto: il suo più grave problema non è produrre, ma consumare ciò che viene prodotto. Quel che conta è convincere i più a disfarsi del vecchio, magari appena sfilato dal cellofan, per sostituirlo con il nuovo di fabbrica. Perché non indurre la voglia di essere sempre à la page? È così che nasce il ragionamento che sorregge la moda e il design, entrambi con lo stesso obiettivo: solleticare appetiti in chi è sempre sazio. Dobbiamo prenderne atto: ci sono spesso riusciti.

Trasferire la mentalità della moda e del design all’Architettura? Un passo che non è difficile: è impossibile. A renderlo tale è la natura stessa dell’Architettura la cui codificazione ha oltre duemila anni. L’Architettura, se vuole essere tale, deve offrire il proprio volto alla città e ai secoli che l’attendono.

Se è vero che l’Architettura può essere realizzata su spazi privati, è anche vero che essa si rivolge a tutti, perché tutti la possono osservare. Per quanto possa porsi a servizio di un privato, chiunque potrà osservarla, sicché è destinata a diventare un oggetto nel quale la città dovrà riconoscersi, positivamente o negativamente. L’Architettura è destinata a assumere il ruolo di protagonista della scena urbana: c’è quanto basta per essere considerata un bene collettivo, decoro o disdoro della città. Il suo luogo è la città. Che l’accoglie e cresce con lei.

Le è richiesto non solo di soddisfare i desideri del committente, ma è giusto debba soddisfare le motivate richieste della città. Magari con il solo guscio esterno, la sola membrana di separazione tra ciò che raccoglie i gesti quotidiani e ciò che si è inteso mostrare nella dignità formale pretesa dai rapporti con gli altri edifici, sia pure nel segno della propria vanità. Un oggetto utile a sé e un tributo alla collettività: che sia l’Architettura decostruttivista a conquistare la scena, con le sue illogiche sequenze e un’insanabile rottura col passato, auspice la sua logica-non-logica?

Postfazione

Di Giorgia Boitano

Riproporre un saggio di architettura sfruttando le potenzialità di un ebook multimediale. È la sfida che ci siamo posti per parlare a un pubblico sempre più abituato a nuove forme di comunicazione e coperto da stimoli di ogni genere. In un momento in cui la maggior parte delle informazioni che riceviamo compaiono su uno schermo, anche l’editoria tradizionale può tentare nuove strade. Così, utilizzando alcune tra le tante potenzialità delle tecnologie digitali, vogliamo ragionare insieme.

È nato tutto durante una conversazione informale. L’idea era quella di utilizzare l’efficacia comunicativa delle immagini per supportare una tesi, accostare fotografie come argomentazioni e, perché no, strappare al lettore qualche sorriso. Un ebook sembrava il mezzo migliore per raggiungere questo scopo. Non un semplice documento di testo, ma un prodotto multimediale di ultima generazione, molto più simile a un sito web che a un pdf. Una volta scelto il mezzo più consono, il progetto ha preso forma.

Ognuno faceva il suo. Come curatore, mi sono occupata della struttura, della forma e della grafica. Abbiamo lavorato in squadra, dividendoci le competenze e facendo del nostro meglio per raggiungere la meta. Questo ebook è il nostro modo per dire che si possono trattare temi impegnativi con leggerezza, senza rinunciare ad accuratezza e serietà dei contenuti. Volevamo condurre il lettore in un luogo dove può ragionare insieme a noi. Dove può leggere descrizioni e commenti, vedere esempi concreti e giudicare da sé. Consci della difficoltà di un tale obiettivo, andiamo avanti verso la prossima sfida.

Autori

Delfo Del Bino

Architetto nato nel 1923 a Firenze, si occupa di architettura da oltre 60 anni. Ha fondato e diretto uno studio professionale a Firenze, ha retto la cattedra di Igiene Ambientale presso la Facoltà di Architettura di Firenze e continua a interessarsi ai problemi dell’urbanistica e dell’architettura.

A cura di

Giorgia Boitano

Redattrice e giornalista nata a Genova nel 1988, ha studiato i linguaggi della comunicazione digitale e ha scritto prevalentemente di viaggi e cultura. Collabora con la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Milano e si occupa di pubblicazioni multimediali.

Federico Baldi

Architetto nato a Firenze nel 1986 e pragmatico di natura, si dedica alla professione e matura la propria esperienza negli uffici tecnici dei cantieri. Nel tempo libero, si interessa di tecnologia e architettura, di cui discute con il nonno Delfo.


Colophon

Decostruttivismo e Architettura

Considerazioni sull’Architettura contemporanea

Autore: Delfo Del Bino

Curatore: Giorgia Boitano

Immagini: Federico Baldi


Settembre 2015

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Decostruttivismo e Architettura
  1. Guida alla lettura
  2. Prefazione
  3. Introduzione
  4. 1. Decostruttivismo
  5. 2. Architettura
  6. 3. Riflessioni
  7. Postfazione
  8. Autori
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